┼ Missa Est ┼
25.6.04

 
poggiasole di rugiada che si fugge prima d'alba
parte prima eurocromo erode


trasparentemi via tutto quanto non si abbina al vento
subbuglio di soffi dal cranio che strabriciola sul film
muggiasco di sostanze immediate che si dimenticano fuse
la forza dell'orma m'entra e la premi e la donna
ancorricòrda

sempre i calli di siepi lunghe, mute cesoie nell'aldilà a sforbiciarsi
"hai dei piedi pranoterrestri che li amano passando il giardino di cure"
e se mi sfoggerai la riconoscenza ti eleveremo nel tumulo dei gerani appassiti
"rotea le guance nel sole di lumaca e odora l'ancido che scuote le polmoniti"


parte seconda sposa di vari profeti


quando così ci gola: il prurito di pensare le vie ancora lunghe
e perciò già percorse è la familiarità con la dimenticanza dei luoghi
partendo dalle terre a gobbe scarsamente illuminate hai compreso nel
suono del tramonto i passi cupi delle foglie sulle foglie

ma del senso che se non ti cade addosso sia pace-amen tu-tu-tu


tre spaventi dal cono m'estuario


e cornici e blasoni e balaustre: il ritratto ha occhio barbaratro
le lenti poliglotte come coltelli celano scruti d'immenso in formalina
poi mi si toglie l'aura maestra e comincia il canto con fede "o bisanzio

mandala qui da me la strega la tratterrò in custodia di violini per te
mostrala qui nel centro alla fine dei passi chiusi in cera tonda perché
le mani congiunte fiano svendite monde, il corno brunisca le falci ch'attardano
e coagulin milizie di ripetizione cinguettî wiri-wiei-wirl

"non ho scordato i colori del vuoto
tutti immeèrsi azzurri nel canto
che libertino ai confini e catena d'imensione
oppone le coste in gemiti d'orca sazia"




p'arte prima "cromodome"


b'oscurantemi l'enzuola d'occhi per divario continuando gli sguardi in finestra
mentre passi dei passi più gravi e t'attardi alla strada profumata di macere erbe
e lì m'alzi la seta cint'ai fianchi, che il desiderio ti appanna gli occhi di lavanda
"tu e i tuoi sogni rotti nei cassetti e le tue calze sconfitte in cerca d'amore"

gambe sequoie la m'istigazione sessuale è reato e lo ricordi da quando bambina
non osavo pensarci e cucivo le metà di voci che tremando tutte uguali al pepe misericordia
mi falce e guano di tigre e scatto felino di crepapassi nel precipizio affogato e poi dicono
che i bambini gente pura.


p'arma del duetto glaciale o miserère


e già si fa sera quando l'inverno accorcia la permanenza
quando i capelli lunghi non fanno più caldo quando già si fa cena
mi copri l'ultima calvizie che è quella di una lingua vecchia e soda
che dice "lasciati dire lasciati spogliare che ne ho passate tante per spiarti
i maya i lombrichi le cantilene che le sai o ci muori ed il mistero dei canguri
ed altro a ritenersi"


parti xké i lampi sono sgambetto agli alberi


poco polite le fantasie se mi alzo gira la testa di bassa pressione
sangue a fatica e langue a matita e sveglia spiritismi girotondi in disuso
quale desolazione questo sapore che mi trovo a benedire bensì condividere
quindi su attentato di riflessione cautamente resto l'emendamento e sparo nella

parte il colpo nella

bocca e mi vedrò
fra le primule spiovute
nella zuppa di temporeali
"quei branchi di mogano avvolti su me
come cateteri di respiro eterno"

ma cazzo spiagami come mai in prima parte il cuore
s'ingegna di un'amicizia corrosa dall'emofilia
che o mi cade addosso oppure pace-amen

e che poi per riposare innanzitutto mi consiglia
di scucire questi polmoni alla transumanza~









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13.6.04

 
c o n o d o m b r a
-Venga il tuo Pregno-

Mi dicono dal calendario che è troppo freddo a stare qui
che è troppo bianco d’inverno ed oscuro in primavera
che è tutto un modo per dirlo, per essere colpe a se stessi
così come seguire il mezzo pregno, la solita materna oscurità

E sonde di tuoni e mantidi campane, cui r’umore è cono
d’ombra sterile al pensiero, praticism’o distrazione vasectomia
monologo interiore vano d’arsure, che in gola già depone
il suo consumo

E cesella il vetro gonfio di eter& baci
brulicante propensione a superficie appiccicosa

Ed ora ardisco a spogliarti i petali appassiti ed orgogliosi
dal loro naturale fascino d’alluminio e paglia
poiché la poesia è morta e per quanto aspetti non risorge

Poesia che vaga un morbo d’inconscio
la poesia, accesa o spenta sempre aria
e la poesia, se mi faccio pioggia se mi faccio
pipì vento o lago - per bagnarmi fino al mento
quantità di saliva di poesia imbracciata a levante
(annusando sorgerla calante)

Ed un dolore ai remi per pescare dai piedi dalla paura-mille-gocce
il rimando perentorio degli occhi sempre pronti aperti a colare:
ho le vesciche suonando a morto fino alla perturbazione alla perfezio
ne piangine piangi pagine

E la mia scia di piume posticcie al davanzale fin giù
ghirlanda d’urli pulcino inesperto al volo dal nido
ed ho creduto come ieri di saperlo afferrare, il mio nervo
come con i denti un tempo, ora con labbra e le mani
come un esperto amatore, che finalmente goda finalmente roda




&




&



&




dis
per
dio



&



&



&



Poi il caldo e le voci succedersi fra siepi
le finestre spalancaie per contrabbattere l’umid’aurora
con sorgere grandangolare di sogni e confessioni d’altrove

Che i pescatori escon quando piove
Che le onde son pascoli a vela
Che voltar le spalle ai pesci
è ritrovarli in costellazioni disperse
Che il maresciallo ordinò ritirata
troppo presto per me che fui solo
mezz’uomo agli occhi mezz’amo ai denti
in questa timida bufera,



dis
per




&


&



dis
per




&



&




(Che ne sei e splendi
Per il mio amore
Che è tuo)






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5.6.04

 
* Accuratamente Addio *
brunendo le spalle ti bevo a noia
ed ancora, sotto al cielo di muro
dalle tue spire ennesime all’alba
sigillo, inesplodo, mi stanco

come usualmente le ombre
traboccheranno ossesse
ed un pulpito spocchioso
dell’interruttore le falcidierà
mentre berceranno ragioni frustrate
nella ruggine eterea ed abbellita

indigestioni a svegliarsi nell’arsura derivante
come conchiglie morte nella bocca appena schiusa
finché sputeremo dentifricio venato al sangue
un bolo morto di imprecazioni senza oggetto

ad addocchiarsi, poi, giunge un perpetuo dialogo
di occhi specchiati, assonnati, bolliti ognuno
nel suo cesso solitario -più o meno lindo.



è stato come pesce fresco nel ghiaccio
a bocconi ingordi fino a vomitare
le branchie sporche d’urbanismo morente

ed ho una vaga idea di ciò che sto dicendo
così come del modo che ti ho amato ed ora

rivelami tutte le bugie all’occhio delle 17.10
sgambetto a chi porta la bara, non preoccuparti
che era vuota: come un dolore restituito.






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